Evo Morales. Il riscatto degli indigeni in Bolivia
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Fino a ieri, per definire la Bolivia si sarebbe ricordato che è il paese più povero dell’America Latina, secondo solo ad Haiti. Un paese isolato, spogliato dei suoi tesori – l’argento, il rame, lo stagno, il petrolio, l’acqua e soprattutto il gas – prima dai colonizzatori, poi dalle multinazionali dell’economia globale, governato o da militari (191 golpe nei 182 anni trascorsi dalla proclamazione di indipendenza dalla Spagna) o da uomini legati strettamente agli interessi economici nordamericani. Più che uno stato, un “osso da spolpare”, come scrive nella prefazione Maurizio Matteuzzi. Ma dal 2000 a oggi, una serie di avvenimenti ha fatto di questa piccola e sofferta realtà un simbolo del rifiuto del saccheggio attuato dalle grandi potenze. La cosiddetta “guerra dell’acqua” iniziata e vinta dagli abitanti di Cochabamba contro la privatizzazione, decisa dal presidente Sànchez de Lozada di una risorsa che dovrebbe essere invece di tutti, aveva, da un lato, portato in primo piano la questione delle risorse sociali collettive e, dall’altro, dato inizio a una nuova forma di aggregazione popolare trasversale fra vari settori, un’alleanza fra città e campagna dalla quale in breve sarebbero emersi i protagonisti del cambiamento politico: i cocaleros, i coltivatori della foglia di coca guidati da Evo Morales. Dal 2005 è il primo presidente indigeno della Bolivia. Un evento storico, che ha segnato un nuovo inizio per la società boliviana e di tutto il continente.