Questa volta non c’è la terra a dare conforto con i suoi frutti, a parte brevi momenti in cui trovare ristoro fra le taverne di qualche approdo mediterraneo. Non ci sono donne da amare, per cui soffrire o duellare, ma soltanto bordelli dove riscaldare l’animo con il vino e con gli immancabili piaceri di una effimera compagnia. Non ci sono gli intrighi di corte, le congiure di palazzo, o le manovre dell’Inquisizione. C’è un periodo di stanza in una Napoli barocca e spagnola, alcune scaramucce con la gente del posto, i versi di don Francisco de Quevedo – per non perdere l’esercizio della lettura – una pericolosa lettera d’amore che riapre ferite lontane, e uno scontro a muso duro con un Alatriste più che mai pensieroso e solitario. Il resto è sole, vento, onde, isole e pirati, insenature e porti naturali, abbordaggi e duelli, in mezzo alla tempesta o alla bonaccia, con la salsedine appiccicata alla pelle e la prua a Levante. Imbarcato sulla Mulata, l’agile galea a ventiquattro banchi della flotta di Filippo IV, il giovane Iñigo si immerge nella dura vita militare e affronta le esperienze che lo porteranno a diventare uomo. Sotto la vigile presenza dell’amato capitano, di un compagno fedele e di un moro convertito, solcheranno i mari del Mediterraneo, a caccia dei corsari e degli inglesi, tra bordate e arrembaggi. Fino all’ultima battaglia, davanti a Iskenderun, dove, contro cinque galee turche, sarà il valore, o forse il caso, a decidere della vita e della morte.